CARLO REA
“Sull’abisso del tempo“
-Rea, artista colto e attento all’aspetto filosofico e ideologico dell’arte, sin dal titolo fornisce una sottile, raffinata quanto puntuale chiave di lettura delle sue opere. Quelle sulle quali concentrerò l’attenzione, non per personali motivi di predilezione estetica , sono le “Superfici Impermanenti”. Il motivo di questa, mia, personalissima scelta ,che già ho detto non dipende da scelte puramente estetiche, è, piuttosto, giustificabile all’interno di un discorso ampio che mentalmente ed emotivamente ho formulato intorno all’opera del maestro, e che mi ha convinto di aver trovato nelle “Superfici Impermanenti” l’esempio più completo e riassuntivo di tutto il lavoro di Rea, sia sul piano del linguaggio visivo-estetico che colpisce il fruitore, sia per quanto riguarda tutte quelle considerazioni esistenziali, etiche, morali dalle quali parte la sua intera ricerca. Dunque cosa mi ha convinto di ciò? Innanzitutto il Titolo, come dicevo, è indicativo. Mi colpì molto questa parola: Impermanenza. E subito andai a cercare definizioni esaustive, nonostante in fin dei conti il suo significato è interamente trasmesso dall’opera stessa.Con grande stupore trovai inizialmente dei collegamenti solo con la cultura buddista, dove l’impermanenza era legata però a puntualizzazioni etiche-comportamentali troppo specifiche e fuorvianti da ciò che pensavo dovesse e volesse comunicare il lavoro di Rea.Quindi, mi chiesi subito dopo cosa fosse la “Permanenza”, ovvero il contrario dell’impermanenza. Ciò che permane, non muta. Esiste al di là del tempo e del suo inesorabile scorrere, al di là del logorìo dei fenomeni atmosferici, fuori dalle logiche della vita e della morte. Ciò che è permanente non muta mai forma o stato. Un moto permanente, ad esempio, è il movimento di un oggetto non soggetto a modificazioni perché non influenzato dal tempo. Un oggetto, soggetto a ciò, compie un movimento instancabile ed infinito, ma sempre uguale.
La permanenza si delinea sempre più nitidamente come l’ideale dell’uomo contemporaneo. Un ideale, quindi, che Rea deve aver interpretato come simbolo della contemporaneità in generale, il fondamento di una società cieca e malata, interessata all’iper-consumismo, che ci ha trasformato in piccole “formichine” iper-attive che si muovono compulsivamente e instancabilmente, alla ricerca di un benessere imposto e fittizio. Così questi “uomini-formichine” hanno bisogno della sicurezza dell’eterna giovinezza, dell’eterna energia vitale giovanile per essere in uno stato di moto perpetuo. La paura del divenire, del cambiamenti delle cose e di se stessi, paura dell’abbandono allo scorrere del tempo, paura della morte. Le Impermanenze di Rea, come tutte le altre opere quindi, pongono l’osservatore, l’umanità tutta davanti all’evidente caducità esistenziale umana. Ci pone, e si pone egli stesso, sull’abisso del tempo. Ci chiede, e si chiede egli stesso, di prendere una decisione, come un Dio illuminato ci da la possibilità di scelta e allo stesso modo si pone l’interrogativo egli stesso. Forse perché egli stesso ancora non sa quale sia la strada “giusta”. Se abbandonarsi nell’abisso del tempo, nello strapiombo esistenziale, o rimanere molto al di là del crepaccio, sull’arida superficie terrosa, o forse ancora la soluzione è passare un esistenza sul filo del rasoio, sporgendosi di tanto in tanto per ricordare l’inconsistenza della realtà e dell’uomo. L’impermanenza si configura quindi come una scelta di vita alla quale si giunge tramite un percorso sdruccievole e difficoltoso per l’essere umano, doloroso, ma alla fine del quale raggiungerà la pace quotidiana, avendo accettato ciò che è il tempo, la morte, la realtà, e se stesso nel mondo, e a seguito di ciò preso una decisione sul come condurre la sua esistenza. Ma come ho detto all’inizio del nostro discorso, ritengo che le Superfici Impermanenti siano esaustive e riassuntive del lavoro di Rea, anche sotto il punto di vista estetico, del linguaggio visivo che coinvolge l’osservatore. Se infatti il raggiungimento della concezione etica-filosofica dell’impermanenza è astruso e doloroso, le Superfici Impermanenti ci trasmettono immediatamente quello stato di quiete d’animo che comporterebbe il suo raggiungimento. Rea come se consapevole della difficoltà di quel percorso,e della cecità umana, plasma un linguaggio visivo appositamente per permetterci di provare, anche se per pochi minuti, quella leggerezza sensoriale e quiete emotiva derivante dall’approdo all’impermanenza dell’essere. Le candide e soffici garze bianche con le quali realizza le superfici, emettono sibili, vibrazioni, che impalpabili avvolgono e trafiggono il fruitore. L’occhio poi si perde in un amabile valzer tra gli infiniti angoli di osservazione dell’opera, innumerevoli punti focali, l’uno conseguente l’altro. La luce emessa da ogni singolo, minuscolo spazio che si crea da l’intreccio tra un filo e l’altro delle garze, riempie lo spazio circostante, inonda ogni cosa. Ora, il silenzio, la quiete, la pace, sono dentro e fuori di noi. Immersi in quest’aurea di fresca tranquillità, in sintonia con noi stessi e la realtà circostante, ci rendiamo conto del sogno, ci svegliamo. Ringraziamo l’artista, anche solo con il pensiero, e ritorniamo sconsolati ma accresciuti su questo mondo. Giovanni Damiani |